Amleto
di William Shakespeare
Teatro Biondo Stabile di Palermo
Produzione Teatro Biondo Stabile di Palermo in collaborazione con Teatro Stabile di Catania
Regia, scene e costumi Pietro Carriglio
Musiche Matteo D’Amico, luci Gigi Saccomandi
registi assistenti Sergio Basile, Umberto Cantone
aiuto regista Luca D’Angelo
assistenti alla regia Anna Banfi, Federico Zanghì
direttore di scena Sergio Beghi
assistente alla scenografia Giuseppe Accardo
assistente ai costumi Marcella Salvo
realizzazione maschere Fabrizio Lupo
maestro d’armi Renzo Musumeci Greco
allestimento scenico Antonino Ficarra
Pagina ufficiale del
Teatro Biondo Stabile di Palermo
Shakespeare
Shakespeare, terzo di otto figli, nasce a Stratford-upon-Avon nel 1564. Nel 1583, a soli 18 anni, sposa Anne Hathaway, di otto anni più anziana, dalla quale ha tre figli. Intorno al 1586 lascia Stratford per Londra. Non si hanno notizie sicure sulla sua vita di questo periodo (secondo la leggenda lavora anche come guardiano di cavalli). Si ha certezza della sua presenza a Londra solo dal 1592, anno in cui è già un attore e drammaturgo affermato. Dopo aver lavorato per più committenti, si associa alla compagnia dei Lord Chamberlain’s Men, per la quale scrive, nel decennio che va dal 1589 al 1599, sette drammi storici (Enrico VI, Riccardo III, Tito Andronico, Riccardo II, Re Giovanni, Enrico IV, Enrico V); dieci commedie (La commedia degli errori, La bisbetica domata, I due gentiluomini di Verona, Pene d’amore perdute, Sogno di una notte di mezza estate, Il mercante di Venezia, Molto rumore per nulla, Le allegre comari di Windsor, Come vi piace, La dodicesima notte) e due tragedie (Romeo e Giulietta e Giulio Cesare). Negli anni a cavallo tra i due secoli Shakespeare esprime al massimo le sue potenzialità creative, facendo rappresentare al Globe moltissimi dei suoi drammi tra i quali Amleto, il problem play (dramma dialettico), che segna un nuovo modo di intendere la rappresentazione, in cui i personaggi esprimono compiutamente le contraddizioni umane, dando voce alle problematiche di un’epoca che si è ormai distaccata completamente dagli schemi medioevali. Il 1603 segna una svolta storica per il teatro inglese. Il re Giacomo I promuove un nuovo impulso delle arti sceniche, avocando a sé la migliore compagnia dell’epoca, i Chamberlain’s Men, che da quel momento si chiameranno The King’s Men. Sono di questo periodo alcune delle opere più importanti: Otello, Re Lear, Macbeth e La tempesta.Durante la rappresentazione del suo ultimo lavoro, Enrico VIII, il Globe prende fuoco bruciando fino alle fondamenta. Intorno al 1610 lascia Londra e si ritira a Stratford. Muore all’età di 52 anni, il 23 aprile del 1616.
Amleto, la crisi dell’uomo moderno
Nell’ormai lontano 1982 Pietro Carriglio concepì un singolare spettacolo shakespeariano dal titolo We Like Shakespeare, il cui filo portante era l’Amleto all’interno di una struttura drammaturgica cui prendevano parte altri grandi personaggi di quel teatro. Si trattava di una originale riflessione sulla crisi dell’uomo rinascimentale, sulla sua tormentata consapevolezza di un divario incolmabile tra il sembrare e l’essere, sulla sua ossessione di un tempo sospeso su una ormai incerta destinazione finale. Avvalendosi della mia traduzione, il regista inventò una scenografia di grande suggestione iconica, in cui le geometrie dell’ultimo Rinascimento venivano attraversate dalle turbolenze di un nuovo sofferto relativismo.
A tanti anni di distanza, Carriglio riprende il suo discorso su tali temi e paradigmi volgendosi direttamente all’Amleto. Una prima sperimentazione su questo testo inaugurale del tragico moderno fu presentata il 21 luglio del 2006 a Gibellina e dedicata ad Agostino Lombardo. Si trattava di uno spettacolo di breve durata, ma di grande intensità, in cui poche scene accuratamente selezionate avviavano la ricognizione delle nervature profonde dell’opera. […]
Il teatrale e il metateatrale contrassegnano molti drammi di Shakespeare, ma in particolare questa grande tragedia anomala in cui il travaglio della crisi epocale del sapere, e conseguentemente del valutare il senso dell’esistere e dell’essere, trova una straordinaria varietà di manifestazioni nella coscienza di un eroe che esprime una vertiginosa percezione della deriva della conoscenza. Cosicché si potrebbe individuare nella perdita, nel lutto, l’insegna fondamentale del dramma. Lutto al livello dell’azione, in quanto Amleto ha perduto il padre e viene presto a sapere dal suo spettro, sugli spalti del castello di Elsinore, che è stato ucciso a tradimento dal fratello – fattosi quindi re – e poco dopo ha perduto, in altro modo, la madre unitasi allo zio assassino per una indebita e quasi incestuosa passione; e ad Amleto tocca il compito di farne vendetta. Ma il lutto emerge prepotentemente anche a un livello più ampio, quello che riguarda il tramonto del senso delle cose in un mondo ora dominato dalla finzione e dalla simulazione, un mondo falso che gli si sgretola davanti in tutte le sue componenti: affettive, conoscitive, fisiche e metafisiche.
È proprio tra questi due piani – del lutto personale e fattuale, e del lutto epocale ed epistemologico – che si sviluppa un nuovo disegno tragico in cui il personaggio eponimo si pone le domande capitali sul senso del sembrare e dell’essere, del fare e dell’essere, e infine dell’essere e del non essere. L’azione drammatica, che dovrebbe seguire l’antico modello della tragedia di vendetta, è così destinata a sbandare e a sospendersi seguendo uno sviluppo non lineare, in cui una costante metadrammaticità (che è rispecchiamento tra azione e rappresentazione) e molteplici linee di fuga conferiscono all’opera un andamento pluriprospettico. Cosicché gli eventi passano quasi in secondo piano rispetto alla interrogazione che ne viene fatta dalla regia stralunata di Amleto, pazzo ad arte e pazzo di fatto in quanto straziato tra due modelli inconciliabili del mondo: l’antico simbolico e l’insorgente relativistico e illusionistico.
[…] Il pensiero, che già articolava la sensata scala delle idee e dei valori, ora gli offre soltanto prospettive parziali e relative “perché non c’è niente né di buono né di cattivo che non sia il pensiero a renderlo tale”. Ogni referente, insomma, dipende da angolature
soggettive ed effimere: in sé non consiste, esposto com’è alla tangente dell’arbitrario o perfino dell’assurdo. […]
Il linguaggio, contraddittorio e disperso, non cifra più il mondo, ma lo guarda di scorcio e lo deforma. La parola di una “follia” simulata ad arte asserisce e inganna, postula e depista, mettendo continuamente in scacco i suoi interlocutori (Polonio, il re, Rosencrantz e Guildenstern ecc.) che intendono sondarne le possibili temibili cause. Ma quella parola è anche un paradossale lucido delirio che lo condanna fino al limite dello sperdimento.
Cui può fare da argine soltanto una nostalgia dell’Essere, e cioè il richiamo, nella sua dilaniata coscienza già “moderna”, di valori antichi, simbolici, che diano senso all’azione e alla ormai confusa rappresentazione del mondo.
[…]
Lo strazio di un senso perduto, la deriva tra due modelli del mondo, il simbolico e il relativistico, conduce Amleto a una continua domanda sull’azione e sulla rappresentazione del mondo. Sperduto com’è, egli mette in questione non solo tutti gli altri personaggi e i loro falsi valori, ma anche se stesso, vedendosi di volta in volta come eroe e come codardo, fustigatore di falsità e falso, folle e unica persona sana nella follia del mondo; e recita molte parti, del malinconico e del lunatico, dell’innamorato disilluso, del figlio fedele all’ideale del padre, del figlio edipico, del predicatore, del profeta apocalittico, dell’attore, del drammaturgo.
[…]
L’unica certezza cui approda è quella finale della morte, che tutti omologa e livella, eliminando qualsiasi differenza e qualsiasi valore. Nella grande scena del cimitero dove viene sepolta Ofelia, il politicante, il cortigiano, l’avvocato, il proprietario terriero, il clown Yorick, e infine gli stessi personaggi esemplari della storia eroica, Alessandro Magno e Giulio Cesare, vengono tutti ridotti alla misura
di teschi e cenere, senza tempo e senza senso, in una stessa vanificazione metastorica. Letto da questa prospettiva finale, Amleto è la tragedia della morte, della drammaturgia della morte, il “personaggio” da sempre incombente sulle vicende umane per concluderne tutte le scene e le azioni, legittime e illegittime, sensate e insensate.
[…]
A dispetto dell’usura dei secoli, Amleto rinasce continuamente nella modernità di tutte le sue traduzioni, linguistiche e teatrali. Innumerevoli volte è stato rivisitato, rifatto, adattato, parodiato, integrato o miniaturizzato. E sempre per cercare di afferrare il segreto di questo testo straordinario come se fosse il proprio segreto. “Vorreste suonarmi, vorreste pretendere di conoscere le mie chiavi, vorreste strapparmi il cuore del mio mistero”, dice Amleto a Guildenstern, uno dei due spioni, invitandolo a suonare un flauto, cosa di cui quello si dice incapace; e così prende in giro lui e il suo compagno sottraendosi ancora una volta alla loro investigazione. Decontestualizzata, questa battuta potrebbe essere rivolta a tutti i suoi interpreti, incapaci comunque di esaurire l’intero senso di questa rappresentazione che sprofonda nell’abisso della stessa rappresentabilità del mondo. Problema dei problemi in cui si sono rispecchiati gli artisti più disparati. E in cui getta ora lo sguardo la regia di Pietro Carriglio, per il quale teatro e metateatro sono da sempre al centro della fantasia scenica e dell’attenzione, per così dire, filosofica. Carriglio offre, con una magnifica compagnia di attori, una lettura teatrale molto ampia, limpidamente fedele al testo e allo stesso tempo ricca di invenzioni funzionalizzate alla esplorazione di quel “mistero” che Amleto rinserra nelle sue molteplici quinte.
(testo tratto da La deriva tragica di Amleto di Alessandro Serpieri, per il programma di sala di Amleto, Teatro Biondo Stabile di Palermo)
Locandina
personaggi interpreti (in ordine di entrata)
Gertrude, regina di Danimarca: Galatea Ranzi
Claudio, re di Danimarca: Luciano Roman
Cortigiano: Maurilio Giaffreda
Ancelle: Anna Banfi, Aurora Falcone, Jennifer Schittino
Bernardo: Sergio Basile
Francisco: Franco Barbero
Orazio: Paolo Musio
Marcello: Domenico Bravo
Laerte: Simone Toni
Polonio: Nello Mascia
Amleto, principe di Danimarca: Luca Lazzareschi
Ofelia: Eva Drammis
Spettro del re Amleto: Sergio Basile
Rosencrantz: Marco Lorenzi
Guildestern: Maurilio Giaffreda
Valtemand, ambasciatore: Lorenzo Bartoli
Compagnia di comici: Sergio Basile (Primo attore, Attore Re) Jennifer Schittino (Attrice Regina) Francesco Prestigiacomo (Musico) Franco Barbero (Prologo)
Lorenzo Bartoli (Luciano) Domenico Bravo, Oreste Valente, Federico Zanghì, Anna Banfi
Primo becchino: Sergio Basile
Secondo becchino: Franco Barbero
Prete: Lorenzo Bartoli
Osric: Oreste Valente
Fortebraccio: Luigi Mezzanotte
Percussioni: Francesco Prestigiacomo
registi assistenti Sergio Basile, Umberto Cantone aiuto regista Luca D’Angelo
assistenti alla regia Anna Banfi, Federico Zanghì direttore di scena Sergio Beghi
assistente alla scenografia Giuseppe Accardo assistente ai costumi Marcella Salvo realizzazione maschere Fabrizio Lupo maestro d’armi Renzo Musumeci Greco
allestimento scenico Antonino Ficarra
capo reparto macchinisti Edoardo Pacera
vice capo reparto macchinisti Raimondo Cammarata primo macchinista Mario Ignoffo
macchinista Giuseppe Macaluso
capo reparto elettricisti Nino Annaloro
vice capo reparto elettricisti Giuseppe Baiamonte elettricista Raffaele Caruso
vice capo reparto fonica Pippo Alterno
capo sarta Carmela Rubino
truccatrice e parrucchiera Ginevra Tessitore
scene realizzate da C. G. Eventi di Giuseppe Calvaruso registrazione audio Panastudio di Francesco Panasci trasporti Sorrentino, Palermo
amministratore di compagnia Antonino Emilio Gelsomino ufficio stampa Roberto Giambrone
fotografi di scena Tommaso Le Pera, Carlo D’Agostino, Nino Annaloro, Franco Lannino, Federico Zanghì
produzione Teatro Biondo Stabile di Palermo in collaborazione con Teatro Stabile di Catania