Candelaio

di Giordano Bruno

Produzione Teatro Biondo Stabile di Palermo, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Prima rappresentazione Teatro Bellini, Palermo 23 maggio 2001

Regia di Luca Ronconi

scene Giovanni Montonati
costumi Gianluca Sbicca, Simone Valsecchi
luci Gerardo Modica
musiche Paolo Terni

Locandina

Autore: Giordano Bruno
Scene: Giovanni Montonati
Costumi: Gianluca Sbicca, Simone Valsecchi
Luci: Gerardo Modica
Musiche: Paolo Terni
Personaggi – Interpreti:
Gioan Bernardo – Luciano Roman
Antiprologo – Valentino Villa
Prologo – Marco Andriolo
Bonifacio – Massimo De Francovich
Bartolomeo – Giovanni Crippa
Manfurio – Massimo Popolizio
Sanguino – Riccardo Bini
Carubina – Laura Marinoni
Vittoria – Galatea Ranzi
Lucia – Manuela Mandracchia
Marta – Anna Gualdo
Scaramuré – Francesco Colella
Mochione – Benedetto Bianchi
Cencio – Vladimiro Russo
Ottaviano – Stefano Moretti
Ascanio – Raffaele Esposito
Pollula – Pasquale Di Filippo
Barra – Francesco Vitale
Corcovizzo – Simone Toni
Marca – Maurizio Ciccolella
Coppino – Nicola Orofino
Consalvo – Mirko Soldano
Registi assistenti: Claudio Longhi, Marco Andriolo
Produzione: Teatro Biondo Stabile di Palermo, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Prima rappresentazione
Teatro Bellini, Palermo
23 maggio 2001

Foto di scena

Ph Marcello Norberth / Piccolo Teatro di Milano

Rassegna Stampa

Luca Doninelli «Avvenire» 27 maggio 2001
L’universo è infinito, infiniti i mondi, e Napoli ne è uno spicchio e uno specchio. Il sunto della storia viene affidato dal Bruno alle labbra della meretrice Vittoria, certa che tutto, al mondo, necessiti: che il vizio occorra altrimenti che ne sarebbe della virtù?, e che la vecchiaia saggia sia l’altro volto della gioventù spensierata, e che insomma vero e falso, bene e male sono – come dirà più avanti Spinoza – le mille determinazioni di un’unica Sostanza, di un unico Essere Necessario. Così, il mondo diventa, si, un gran teatro, ma un teatro disperato, dove la recita coincide col copione e l’attore col personaggio, al punto che nessuno potrà mai conoscere, tramite la recita, il proprio vero volto. Ronconi affronta questo testo con l’amore lucido e disincantato deU’archivista. Una Napoli fatta di decine e decine di porte sistemate orizzontalmente su piani sconnessi è l’affascinante correlativo scenografico del suo pensiero. Rispetto al panteismo immorale e sordido (ma grande) di Bruno, Ronconi pigia sull’acceleratore tragico – l’autoimpiccagione di Bartolomeo -, ma forse non è altrettanto grande. Tra le righe, sembra volerci comunicare che il teatro è finito, che la sua vittima sacrificale è scomparsa come Ifigenia, e che il compito è, adesso, il catalogo.

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Renato Palazzi «Il Sole 24 Ore» 3 giugno 2001

Il Candelaio sfugge ai criteri di classificazione, è quasi un tentativo di catturare la molteplicità del reale che va sicuramente oltre la chiusa convenzione del teatro. E infine, e soprattutto, va sottolineato come il racconto della triplice beffa nei confronti dell’infatuato Bonifacio, dell’alchimista Bartolomeo e del pedante Manfurio non possa e non voglia nascondere la sua natura di opera concettuale, eminentemente dimostrativa Questo nucleo di pensiero che trascende l’impianto novellistico tracima praticamente da ogni piega del testo: dall’attenzione – qui solo occasionalmente derisoria – per un sapere alchimistico ormai prossimo a sconfinare nella moderna ricerca scientifica. Dall’uso ininterrotto dell’oscenità, della blasfemia, della sfida a ogni rispetto formale in funzione di un ribaltamento dei valori dove il giudizio etico è continuamente sottratto alla morale religiosa e precipitato in una dimensione furiosamente laica’. Dal ricorso costante a una filosofia naturale in cui già, in qualche modo, ‘nulla si crea e nulla si distrugge’, e ogni cosa, ‘o vicino o lungi, o adesso o poi, o presto o tardi’, è sottomessa al tempo che regola e racchiude l’andamento delle azioni umane. Questo tema del tempo, a partire dal prologo, si manifesta nell’ossessiva presenza di orologi di varia epoca e forma che contrassegnano il bellissimo allestimento ronconiano.

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Enrico Groppali «Il Giornale» 28 maggio 2001
A differenza di Aldo Trionfo che in una riduzione d’alto manierismo congelò gabbati e furfanti in tipi da favola nera e del recente exploit di Tato Russo che tradusse Il candelaio in napoletano verace, Luca Ronconi, tornato a trentanni di distanza su un canovaccio che gli è congeniale, ha dilatato da par suo come ai bei tempi del Calderón di Pasolini a Prato la cavea del restaurato teatro Bellini. La platea tramutata in palcoscenico è così diventata un mortuario cimitero di botole e porte orizzontali che a volte si rizzano sinistre a ridosso dei carrelli vomitati dal fondo del retropalco come se fossero gli inquietanti relitti delle dimore dei ribaldi di una Napoli della memoria. In un’altra rimeditazione della memorabile Utopia tratta da Aristofane, il regista ha moltiplicato gli ammicchi omosessuali presentì nel testo tramutandolo, specie nella prima parte, in una grottesca apologia della diversità che ha suscitato gli applausi e le risate degli spettatori.