I masnadieri

di Friedrich Schiller

Teatro India
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale

Regia di Gabriele Lavia

con Francesco Bonomo, Fabio Casali, Daniele Ciglia, Michele Demaria, Filippo De Toro, Davide Gagliardini, Gianni Giuliano, Daniele Gonciaruk, Marco Grossi, Andrea Macaluso, Luca Mannocci, Luca Mascolo, Giulio Pampiglione, Cristina Pasino, Giovanni Prosperi, Alessandro Scaretti, Carlo Sciaccaluga, Simone Toni
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
musiche Franco Mussida
luci Simone De Angelis
produzione Teatro di Roma, Teatro Stabile dell’Umbria
in collaborazione con La Versiliana Festival

Tournée

Forlì, Teatro Fabbri
11 | 15 gennaio 2012

Savona, Teatro Chiabrera
17 | 20 gennaio 2012

Como, Teatro Sociale
21 e 22 gennaio 2012

Trieste, Politeama Rossetti
25 | 29 gennaio 2012

Firenze, Teatro della Pergola
31 gennaio |  8 febbraio 2012

Lucca, Teatro del Giglio
10 | 12 febbraio 2012

Brescia, Teatro Sociale
15 | 19 febbraio 2012

Cattolica, Teatro della Regina
21 e 22 febbraio 2012

Terni, Teatro Secci
24 | 26 febbraio 2012

Brindisi, Teatro Verdi
29 febbraio e 1 marzo 2012

Contesto storico

Alla parola romanticismo spesso corrisponde un immaginario pittoresco e sentimentale, come uno dei fiammeggianti tramonti di William Turner. Ma il romanticismo è stato anche lotta per la libertà e per l’affrancamento dagli oppressori, è stato passione per la giustizia, amore per il sapere, emancipazione dal potere.

Questo è I masnadieri di Schiller: ‘libertà o morte’ è la dichiarazione di questi briganti ribelli, di questi banditi rivoluzionari, entrati violentemente nella storia della letteratura tedesca come esponenti della ribellione, insieme al loro creatore. Con stile drammatico e un’abilità scenica immaginifica ed emotiva, Schiller s’inserisce perfettamente nello Sturm und Drang e con la sua opera attacca le istituzioni politiche, le convenzioni sociali, i pregiudizi morali con il fermo proposito di fare del palcoscenico un nuovo ‘istituto morale’.

Le parole di Schiller risuonano nell’orecchio del mondo contemporaneo ed è per rispondere a tale richiamo, così urgente anche oggi, che Gabriele Lavia riprende quest’opera giovanile, straordinaria, piena di ideali, di grande impatto emotivo e scenico.

Personaggi e interpreti

I costumi

C’è un’idea precisa dalla quale siete partiti per disegnare i costumi?

Nel mio credo i costumi sono la ‘seconda pelle’ dell’attore, anzi in alcuni casi la prima, tenuto conto del ruolo che sta interpretando. In questo senso è fondamentale il dialogo col regista, attraverso il quale si evince quale mondo vuole rappresentare, qual è il contesto in cui si devono muovere i personaggi. Nel caso di questi  Masnadieri, Lavia è partito da una lettura che mette in risalto il malessere sociale, già presente nel testo di Schiller e di molti suoi contemporanei, in quel periodo di passaggio tra l’Illuminismo e il Romanticismo; un malessere che stiamo vivendo anche oggi, anche noi in questa fase di passaggio tra la morte delle grandi utopie, il vuoto ideologico e la mancanza di punti di riferimento. Dunque direi che siamo partiti da questo approccio, con l’idea di lavorare attorno a qualcosa che riportasse questa specie di disperazione che traspare dal testo.

Una sorta di attualizzazione?

In qualche senso sì, ma direi che il termine ‘attualizzazione’ sia un po’ troppo sintetico per indicare il senso con cui abbiamo lavorato a questa edizione. L’utilizzo della pelle, le citazioni di gusto ‘dark’, che portato all’eccesso – reiterato – richiamano senz’altro il mondo attuale delle bande metropolitane, qualcosa che si aggancia con l’utilizzo scenografico dei graffiti. Ma il lavoro è stato più complesso, direi più ‘profondo’, perché si è trattato di girare attorno a tonalità cromatiche e a un disegno che rispecchiasse, come ho detto, il buio interiore che Schiller rappresenta nel testo.

Voi avevate già lavorato sullo stesso testo nell’edizione del 1982, all’Eliseo, sempre con la regia di Lavia. Ci sono punti di contatto?

Quella fu un’esperienza molto diversa, con un’edizione se vogliamo ‘classica’, che probabilmente rifletteva anche un periodo storico e sociale diverso. Da allora sono passati molti anni, anni che ovviamente ‘significano e pesano’ e che ci hanno portato a una messa in scena, questa, decisamente differente, sicuramente più cupa e problematica.

Questo ha creato molte difficoltà?

Le difficoltà ci sono sempre e credo che sia anche interessante cimentarsi a distanza di tempo su uno stesso testo, tra l’altro un testo molto ‘presente’ nella storia del teatro, in quanto l’inquietudine giovanile è ‘presente’ nella storia dell’uomo. Se devo guardare a questa edizione credo che la maggiore difficoltà sia stata nel rimettersi in discussione cercando di non cadere nel ‘già fatto’ la dove quell’edizione dell’82 fu un successo epocale, non solo di critica ma, soprattutto, per la  rispondenza che incontrò fra  il pubblico giovanile.  Debbo però confessare che mi è stata di conforto la lunga ‘conoscenza e sintonia’ con Lavia, con quale condivido anche alcune ‘osservazioni’ del mondo attuale che ha permesso di trovare quelle soluzioni di lettura di costume  che, come dicevo prima, è essenziale per realizzare un progetto importante come questo Masnadieri.

Andrea Viotti

Diplomato all’Accademia delle belle arti di Roma, inizia la sua attività negli anni Settanta presso le Sartorie Tirelli e Anna Mode e lavora come assistente ai costumi, tra gli altri, di Piero Tosi, Gabriella Pescucci, Pier Luigi Pizzi. Cultore e studioso di Storia militare, collabora con l’Uffici Storici dell’Esercito e dell’ Aeronautica.e, per questi istituti, ha pubblicato numerosi volumi.

Teatrografia

2004 Un, personne et cen milledi F. Però – Il piccolo portinaio di Manfré – La giara di Manfré – 2003 L’etranger di F. Però, L’avaro di G. Lavia2001 Luisa Miller di G. Lavia Teatro San Carlo, Napoli – 2001 Il viaggio di Oreste di F. Però Accademia d’arte drammatica della Calabria – 2000 Lohengrin di F. Però Teatro Regio, Panna – 2000 Edipo Re di G. Lavia T.S.T. Siracusa – 2000 Il Misantropo di G. Lavia Teatro Stabile, Torino – 2000 Sogno di una notte di mezza estate di S. Marcucci Accademia d‘arte drammatica della Calabria

Filmografia

2002 Sospetti 2 di G. Lepre (TV) – 2002 El Alamein di E. Monteleone (Film) – 2002 Mathi/de di N. Mimica (Film) – 2002 Salvo D’Acquisto di A. Sironi (TV) – 2000 Alla rivoluzione sulla due cavalli di M. Sciarra (Film) – 2000 Love and war in t/te apennines di J. K. Harrison (Film) – 2000 Il diario di Matilde Manzoni di L. Capolicchio (Film)

Premi

1984 Premio Jorio – 2003 Globo d’oro – 2004 Globo d’oro

 

 

Le musiche

 

Come è nato, da musicista e compositore, il suo rapporto col teatro?

In maniera del tutto casuale. L’anno scorso Alessandro D’Alatri, per il suo Scene da un matrimonio tratto dalla commedia e dal film di Bergman, cercava qualcuno che gli componesse delle musiche originali fatte di sola chitarra. Una amica comune ci mise in contatto. Non avevo mai avuto esperienza di musiche per il teatro.  La trama, i caratteri mutevoli dei personaggi, la complessità del testo di Bergman mi preoccupava non poco, ma ho sempre amato cimentarmi con situazioni che non mi lasciano tranquillo, dunque ho accettato di buon grado il suo invito. Il risultato finale ha avuto giudizi molto positivi. Tra questi quello di Gabriele Lavia che ebbe modo di assistere alle prove dello spettacolo al teatro comunale dell’Aquila. Qualche tempo dopo mi telefonò per propormi le musiche de I masnadieri. Una richiesta che mi ha onorato e che, dato il nome e il prestigio del richiedente, mi si prospettava ancora una volta come una nuova sfida.

Mi sono solo riservato di dare una risposta dopo aver letto il testo. Rimasi perplesso dalla lettura ma nel parlarmi dell’adattamento che aveva in mente per l’opera di  Schiller, Lavia mi trasmise un tale entusiasmo, da soffocare ogni dubbio. Dell’opera originale mi colpì il clima di aperta disperazione che veniva raccontato negli eventi di allora. Un clima, un’aria che però si annusa anche oggi (come si intuisce bene dal riadattamento) non solo attraverso circoscritti fatti di sangue e di delinquenza, un’aria che penetra in modo diffuso e popolare fino a intrufolarsi attraverso il dubbio di una comune esistenza senza certezze, nell’intimità di tanta gente insoddisfatta che si sente tradita non solo dalle persone, ma dalla società, dal suo modello non all’altezza di soddisfare i veri bisogni della persona. Un’insoddisfazione che mina la voglia di resistere, di ribellarsi, sfiancati da un vivere per abitudini, per convenienze materiali, rendendoci cosi più facilmente prevedibili, e quindi condizionabili.

Una nuova sfida che dunque prelude ad altro?

Non lo so. Sinceramente non so se tutto finirà qui, o se il mio rapporto col teatro avrà un seguito. Per il momento mi piace guardare il presente.  Non saprei nemmeno dire se questa sfida è stata facile o difficile perché quando mi appassiono a qualcosa, mi intriga cercare corrispondenze musicali, risposte di suono, provare differenti soluzioni. E poi mi piace  confrontarmi con persone che sanno dare stimoli forti. In questo caso, per esempio, nel pensare alle musiche, c’è stato un confronto diretto, addirittura alcuni dei temi che ho composto sono venuti fuori non tanto da un lavoro per così dire a tavolino,‘razionale’, ma da sensazioni che mi arrivavano direttamente dalla voce recitante di Lavia che, durante un paio di incontri preliminari, mi faceva vivere intere parti del testo: lui recitava, impersonava i diversi personaggi, io ascoltavo e immaginavo musicalmente. Lavia mi faceva entrare in situazioni, atmosfere, azioni che sul momento hanno trovato un nuovo,  diverso linguaggio: quello delle mie emozioni diventate suono attraverso lo strumento della mia chitarra. Il tema di Karl, ad esempio, è nato così, come alcuni spunti delle canzoni cantate in  scena dagli attori come “Maledetti voi”.

Ha compiuto delle scelte precise?

In realtà questo lavoro passa attraverso una serie di situazioni davvero speciali che mi auguro portino fortuna. Ne cito una. A me spesso piace scrivere per il piacere di scrivere, e se realizzo o incido brani musicali, canzoni, non sempre è per pubblicare. Tra le musiche dei Masnadieri infatti, si nasconde una musica a cui tengo tantissimo da molto tempo. Una musica che scrissi  sperimentando anche la sonorità di un particolare strumento popolare medioevale: la ghironda: strumento occitano, dei menestrelli francesi, ma presente e molto diffuso in molte parti d’Europa. Vivendo dall’interno l’adattamento di Lavia, mi sono persuaso che non c’era di meglio della Ghironda per datare, far percepire attraverso il suo suono (non attraverso lo stile o il linguaggio musicale) il clima di un non ben definito periodo della nostra storia passata. I vari temi dei Masnadieri vedono così la ghironda come grande protagonista. Quel tema ha come origine l’aria di una canzone che viene proposta col mio canto dopo la chiusura del sipario: la canzone di Auracantar. Con il consenso di Lavia ne ho rivisto il testo proprio per dare un po’ di fiato allo spettatore fortemente provato dalle forti emozioni degli eventi. Tema e canzone sono rimasti in attesa nel mio studio per più di quindici anni prima di trovare il loro posto nel mondo.

Altra scelta precisa è stato puntare sulla sonorità senza tempo della chitarra. Un insieme di sonorità di chitarra dalle più arcaiche e popolari alle più moderne e inquietanti, spesso suonate in tanti modi inusuali, fuori norma. Ho scelto come forma musicale principale l’approccio minimalista. Quasi tutte le composizioni hanno questo carattere, sono figlie di un ripetersi continuo delle parti essenziali per riprodurre il nostro ritmo di vita sempre scandito da elementi ripetitivi, seriali. Un minimalismo fatto perlopiù da chitarre ‘classiche’, il che contribuisce ad unire inconsciamente in un tutt’uno temporale, presente e passato. Ci sono anche molte chitarre elettriche spesso suonate volutamente in modo a-sentimentale, quasi oggettivo, ficcante.

Altra scelta precisa sono state le percussioni, utilizzate per dare  l’idea della tribù, dell’insieme, del selvaggio, della  naturalità popolare. Le composizioni sono divise in temi. Il principale è senz’altro quello dei Masnadieri. Poche note. Realizzato in diverse variazioni è proposto spesso nel corso della rappresentazione, un tema che si espande fino a diventare appunto la canzone che conclude lo spettacolo. Mi piace ricordare l’importante lavoro che ha fatto mio figlio Sandro nel curare la produzione, specie il montaggio delle strutture minimaliste di cui ho detto.

Lei ha parlato del mondo de I masnadieri come un mondo disperato, qualcosa di molto diverso dall’idea ‘banale’ del Romanticismo…

Avevo scritto un paio di temi con un’idea più ‘romantica’, perché anche se mi era chiara l’atmosfera di disperata attualità  con cui Lavia ha riletto il testo di Schiller, c’era una figura femminile, Amalia, che mi immaginavo più dolce. Per Lavia era invece decisamente una ‘tosta’, dark, bastonata, incazzata. I temi musicali come “Maledetti voi” hanno quindi acquistato una valenza molto più dura, amara. Altre variazioni ci sono state negli ‘accenni canzone’ interpretate dal gruppo dei Masnadieri (Eroi del buio – Il sole muore) che ora sono cantati dagli attori in modo scanzonato, da inconsapevoli incoscienti, come se il testo fosse l’occasione per prendersi in giro. Uno dei lati interessanti del comporre musica per il teatro è il confronto col regista, specie se la regia l’ha in mano un gigante come Lavia a cui interessa molto che la musica in scena lavori in sinergia con le intenzioni più nascoste del testo. A proposito di testi. Una cosa che mi ha dato grande soddisfazione è aver potuto scrivere personalmente i testi di tutte le canzoni, alcune ovviamente tratte direttamente dall’opera di Schiller.

Può fare un bilancio di questo suo lavoro con Lavia?

Positivo senz’altro, anche se certamente impegnativo, nel senso del reale impegno temporale profuso. Intendo ore di studio. Alla fine sono stati registrati cinquantacinque momenti musicali di cui trentacinque originali ed altri costituiti da temi ripresi e rielaborati. Temi, ma anche sottofondi, ed effetti sonori forti. Dovendo dare un’immagine del lavoro che ho svolto, si può dire che è come se avessi fornito a Lavia un’ampia tavolozza colori, di emozioni, sentimenti, sensazioni in forma di suono. I diversi temi sono stati da me immaginati come caratteri, ovvero come colori, il corrispettivo sonoro interiore dei diversi personaggi. I modi con cui sono stati suonati, le sonorità, i ritmi lenti e agitati, sono invece il quadro sonoro delle loro tante diverse sfumature di intenzione, di emozione, i loro sentimenti privati.  Più di due ore di musica a disposizione. A Lavia la scelta di dove piazzarle. Il risultato finale l’ho ascoltato all’anteprima, seduto tra il pubblico. E alla fine ho dovuto constatare che ha fatto ottime scelte e ne sono pienamente soddisfatto. Per quanto mi riguarda spero non solo che il lavoro nel suo insieme piaccia tanto e abbia successo, ma, visto che mi sto divertendo molto, mi auguro possa consentirmi di accumulare crediti per nuove sfide teatrali.

Franco Mussida

Milanese. Musicista e compositore. Ha oltre cinquanta anni di esperienza in diversi settori artistici: concertistico, formazione, ricerca sulla comunicazione musicale. La sua abilità di spaziare in ambiti diversi, compreso quello del disagio giovanile, e la sua lunga carriera concertistica l’hanno reso una figura del tutto particolare nel panorama internazionale. Il suo strumento è la chitarra. Primo tour europeo a quattordici anni con un gruppo di giovani talenti. Nel 1964 fonda, con Franz Di Cioccio, il gruppo “I Quelli” e nel 1970 la band più apprezzata e amata del Prog Italiano: la PFM (Premiata Forneria Marconi) nota in tutto il mondo. Della PFM ha scritto i brani più significativi,  da “Impressioni di Settembre” a “La Carrozza di Hans”. Le produzioni più recenti della band sono: “Stati di Immaginazione” (2008) e “PFM in Classic” (2011) che rivisita composizioni di grandi autori classici con l’Orchestra Sinfonica.

Nel 1978 cura la direzione artistica del progetto “PFM De André” e arrangia le nuove versioni dei brani “Il Pescatore” “Bocca di Rosa” “Marinella” e altri. La sua chitarra è presente nei più importanti dischi dei grandi cantautori italiani: da Battisti, a Paolo Conte passando per Guccini.  Negli anni ‘80 Mussida si dedica a studi di filosofia, antroposofia e pedagogia, occupandosi attivamente di comunicazione musicale non verbale e sperimentazione didattica, e collabora con diverse università italiane. Nel 1984 è tra i fondatori del Centro Professione Musica di Milano tuttora scuola di formazione tra le più importanti d’Italia. Crea il primo laboratorio di Musica nel carcere di S. Vittore a Milano (1987/1994) e collabora con la Comunità (Exodus). Nel ’93 pubblica Racconti della Tenda Rossa e nel ’96 Accordo. Nel ’98 compone la Sinfonia Popolare per 1000 Chitarre (ne dirigerà sette edizioni). Sempre aperto a nuove sfide, prima dei Masnadieri di Schiller, Franco Mussida ha scritto le musiche dell’adattamento teatrale di Scene di un matrimonio di Ingmar Bergman, per la regia di Alessandro D’Alatri. è in uscita un suo progetto che porta la Musica nelle gallerie d’arte.

 

 

Le scene

Come nasce l’idea di utilizzare i graffiti?

Probabilmente, come spesso capita, si è trattato di un incontro tra un’immagine che Gabriele Lavia aveva da tempo e una mia proposta che gli ho avanzato per la realizzazione de I masnadieri di Verdi che dovremo allestire al San Carlo di Napoli. Così come per questa di Roma, si pensava di fare anche lì un’ambientazione urbana, un ambiente degradato, rovinato. Lavorando in studio su questa idea, mi sono immaginato un teatro distrutto, diroccato, nel quale entrano dei ragazzi che ne hanno imbrattati i muri. Ne ho parlato con Gabriele al quale questa immagine è piaciuta molto, anche se ha espresso delle perplessità sulla possibilità di usare questa ambientazione nella lirica. Però mi ha proposto di fare questo lavoro per India, dove senz’altro il contesto gli pareva più adatto; c’è un teatro che diventa uno spazio underground. L’utilizzo dei graffiti nasce dunque così, dall’incontro di due visioni sulle quali abbiamo lavorato. Abbiamo fatto delle ricerche e infine abbiamo trovato un gruppo di ragazzi romani molto bravi che hanno già fatto dei lavori molti belli sui muri della città. Con loro abbiamo lavorato molto per trovare un legame, qualcosa che non fosse solo estetico ma che fosse anche narrativo, che in qualche modo raccontasse la storia che si stava svolgendo sul palco. Per esempio abbiamo voluto che anche la grafia delle tag fosse neogotica, legata dunque al contesto narrativo. Dunque i graffiti da un lato servono a contestualizzare in senso temporale l’azione scenica e dall’altro a ‘raccontare’ I masnadieri con il linguaggio grafico.

Lei hai disegnato una scenografia formata da una vera e propria selva di luci…

Si tratta di un’astrazione. Certo l’immagine richiama la foresta boema nella quale Schiller ha ambientato una parte dell’opera, ma con questa scenografia andiamo oltre, in uno spazio molto più astratto, nel quale gli elementi svolgono una funzione drammaturgica e non decorativa.

Nonostante la presenza di molte luci l’azione si svolge in un contesto molto buio.

Non sempre, però certamente l’ambientazione è scura, notturna, con dei forti controluce, dei segni che sono caratteristici della cifra di Lavia. Abbiamo inoltre creato una quadratura nera usando  una garza di plastica proprio per dare il senso di astrazione e di cupezza.

Siete partiti già con una precisa immagine scenografica o siete arrivati a queste soluzioni per gradi?

Avevamo l’idea molto chiara di lavorare a un allestimento estremamente asciutto e su questo, ovviamente, abbiamo proceduto verificando volta per volta determinate idee: l’uso della torba, quello delle piantane, la loro disposizione, l’uso di elementi praticabili mobili, un insieme che si rifaccia all’idea di uno spazio abbandonato che comunque riporti al teatro.

 Alessandro Camera

Finiti gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, deve la sua formazione professionale e artistica alle collaborazioni con Luciano Damiani e William Orlandi.

Per il teatro di prosa firma Scene da un matrimonio di Bergman, Macbeth di Shakespeare, Danza di morte di Strindberg e Il malato immaginario di Molière regie di Gabriele Lavia; Madame Bovary da Flaubert e Maria Stuarda di Schiller, regie di Giancarlo Sepe. Con le regie di Glauco Mauri Variazioni enigmatiche di Schmitt, Il Volpone di Ben Jonson, Il Bugiardo di Goldoni e Delitto e castigo di Dostoevskij oltre musicals come Flashdance, Cabaret e Sweet Charity per la regia di Saverio Marconi.

In campo lirico, Nabucco di Verdi sempre con la regia Marconi e Il Trittico di Puccini al Teatro Massimo di Palermo, Luisa Miller di Verdi e Le Roi de Lahore di Massenet (Teatro La Fenice di Venezia), Rigoletto (Opéra de Lausanne), La Traviata (Opera di Praga) e Falstaff di Verdi (Teatro San Carlo di Napoli), Carmen di Bizet (Finish National Opera di Helsinki) e La Dama di Picche di Tchaikovsky (Theatre du Capitole di Toulouse), queste ultime con le regie di Arnaud Bernard.

Intensa la collaborazione con Gabriele Lavia. Per la sua regia ha recentemente firmato le scene dell’Attila di Verdi al Teatro alla Scala di Milano, Giovanna d’Arco (Festival Verdi di Parma), Nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte di Mozart (Suntory Hall di Tokyo) e Salomè di Strauss (Teatro Comunale di Bologna).

Prossimamente, sempre con Lavia, metterà in scena Don Giovanni di Mozart per la San Francisco Opera e I masnadieri di Verdi per il Teatro di San Carlo di Napoli.

Nel 2007 ha ricevuto il Premio “Dedicato a Vittorio Gassman” come miglior scenografo.

Diario delle prove

l testo che qui segue è un estratto del lungo lavoro di documentazione delle prove de I masnadieri di Gabriele Lavia, compiuto da  Carolina Iapadre, Laura Khasiev, Stefania Panetta, Azzurra Petrungaro, Stefania Salvatori (foto), studentesse dell’Università di Tor Vergata e giovani del Municipio VIII. Il testo spesso conserva un carattere di ‘appunto’ che può rendere meno scorrevole la lettura, ma che non inficia il suo valore filologico.

Il lavoro di lettura e introduzione

Gabriele Lavia ha introdotto le prove parlando della modalità con cui vuole procedere. È partito dal racconto di quando mise in scena per la prima volta I masnadieri, in qualità di attore e regista, nel 1982. Lo spettacolo fu un trionfo, partecipò al Festival Schilleriano, la critica tedesca sostenne che in quell’occasione gli italiani avevano dato una lezione su come affrontare Schiller. Questa esperienza ha segnato la vita di Lavia che intende rimettere in scena l’opera, rinnovandola, pur cosciente della difficoltà insita nell’operazione. L’intenzione che lo muove è quella di scoprire tutto ciò che I masnadieri ha da dire oggi, in quanto opera gravida di tanta filosofia antica e moderna, di saggezza, di conoscenza e capace di godere di un respiro tutto nuovo, in linea con la contemporaneità. Lavia ha introdotto il lavoro con una lettura a tavolino, corredata dalle spiegazioni sia del testo che dell’arte dell’attore, attingendo a più riprese dai saperi filosofico-storici. Ha proceduto contemporaneamente, facendo interagire tre piani di studio differenti: il primo relativo all’approfondimento del senso del testo schilleriano, il secondo riguardante più prettamente l’arte dell’attore, il terzo inerente alla messa in scena dell’opera. Il regista ha coinvolto gli interpreti non solo alla lettura, ma anche alla costruzione di un’atmosfera da trasferire sulla scena, facendo riferimento al periodo in cui Schiller ha concepito l’opera. Era il 1781, il Romanticismo stava volgendo al termine, bagnando i suoi strascichi in quel movimento culturale dello Sturm und Drung (Tempesta ed impeto), in  cui l’opera è pienamente immersa e di esso si bagna sino a colorarsi di quelle tonalità “furiose”, che rivestono l’animo dei personaggi. In quello stesso anno Immanuel Kant scrisse La critica della ragion pura, opera emblematica di uno stato d’animo che stava volgendo radicalmente ad un cambiamento. Quel cambiamento si sarebbe concretizzato otto anni dopo con la Rivoluzione francese. In Schiller c’era quel fermento e quella voglia di ribaltare impetuosamente la realtà e Lavia si è infatti soffermato sulla battuta di capitale importanza, pronunciata da Karl: «Libertà o morte», che in tedesco fu concepita con i termini di «Freude oder Tod», letteralmente «Gioia o morte» perché a quei tempi non poteva essere né pronunciata né scritta la parola “Libertà”. Così quello di Schiller divenne un “Inno alla gioia”, vero e proprio atto solenne ed etico nei confronti del potere di quel tempo. Ciò rappresentò un invito ancora più vigoroso e carico di significato, che conteneva quel senso di libertà inteso dall’autore, ma anche molto altro e soprattutto quella voglia di ribellarsi. I masnadieri sono giovani che l’autore definì libertini, banditi, assassini nell’anima, questo gruppo di individui che Lavia ha inquadrato come ragazzi senza speranza, immersi nell’aridità degli intenti, privi di una meta da inseguire e capaci solo di eseguire gli ordini di colui eletto come capo banda, Karl von Moor, definito dal regista «dittatore nella sua essenza più profonda, che dominato da un forte senso di giustizia, si trascina a compiere atti ingiusti». Se Schiller lo fa andare via pentito di aver compiuto delitti e privato di ogni stimolo di continuare a guidare i banditi, Lavia accentua il taglio dell’opera con un finale “in tinta” con la nostra contemporaneità, facendolo uccidere da coloro che lui stesso ha guidato fino a pochi momenti prima… I masnadieri erano e sono coloro che, animati da quel senso di libertà, vogliono spezzare le catene, un tempo rappresentate dal potere imperante, personificato nella figura di Federico II, oggi costituite dalla possibilità di respiro che viene sempre più negata alla cultura. Schiller parla anche di “verità”, e Lavia si è soffermato a spiegare il senso di questo termine riferendosi all’ambito prettamente filosofico, dunque come “aletheia”, termine greco che si asccosta allo ‘svelamento’, quindi al togliere il velo dell’oscuramento e mostrare ciò che esso cela. Questa parola prende le distanze dunque dalla “verità” intesa dai latini, la “veritas” che ha la medesima radice della parola “verum” ossia barriera e portone, e quindi è qualcosa che si ha abbattendo quel portone. Per accedere alla verità è dunque necessario abbattere il portone, ossia il “falsum” (in latino) e quindi cadere, per poi rialzarsi e andare aldilà di esso il vestibulum, luogo in cui per entrare è necessario abbandonare il proprio abito. Questo discorso oltre a riguardare l’essenza per l’opera, si fa utile all’attore, colui che svela la verità, e lo fa mentendo, sulla scena, abbandona le proprie “vesti”, per assumerne altre e dire la verità del personaggio che deve interpretare.  Il regista ha proseguito la spiegazione facendo capire però che non si può prescindere del tutto dal significato latino di “veritas”, che ha il suo corrispettivo opposto nel termine di “falsum” da “fallere”, ossia compiere un passo falso, cadere, far crollare e quindi tutto si collega: la ricerca della verità implica l’abbattimento delle barriere e i masnadieri sono i portatori di tale missione. Il regista ha fatto capire che nell’autore tedesco tutte quelle che sono immagini filosofiche ed ideologie dense di senso etico e civile, si sono tramutate in immagini poetiche, che sulla scena vanno rese proprio essendo consapevoli di queste valenze. Figure basilari del testo sono Karl e Franz, i due fratelli in antitesi, l’uno bello, intraprendente, eroico, protagonista di un dramma ideologico, l’altro storpio, gobbo, claudicante, antieroico e portatore di un dramma psicologico. Quest’ultimo è capace solo di fare cose spregevoli, si macchia di omicidi e infine del suicidio. Lavia lo descrive come il figlio non considerato, escluso dagli affetti paterni, riversati tutti sul fratello, sano e bello, che Franz ha guardato sempre con ammirazione, stupore, desiderando di divenire come lui. Per il regista i due potrebbero essere gemelli, il buono e il cattivo, le due facce di una stessa medaglia, in qualche modo figure della filosofia eraclitea che vede la necessità di coesistenza dei contrari, motore di tutte le cose. La motivazione fondamentale che ha portato Gabriele Lavia a scegliere quest’opera nella rosa delle opere teatrali sta soprattutto nel fatto che, come egli ha spiegato, oggi ci stiamo dirigendo verso un nuovo sorgere della civiltà occidentale, proprio come all’epoca in cui Schiller scrisse, periodo in cui il germe della Rivoluzione era in atto e ci si stava muovendo verso una nuova epoca, che avrebbe tagliato radicalmente con quella precedente. Tutto questo è importante anche perché il regista, attraverso tale riflessione, ha voluto pensare a come rendere la battuta di Karl «Libertà o morte», facendo risuonare nella parola libertà anche quel senso di verità di cui sopra si è parlato, evocando la necessità di una scelta radicale che porti i nostri tempi così “liquidi” ad assumere le coordinate di una meta precisa, che ribalti lo stato attuale della situazione socio-culturale.

Circa lo stile con cui ‘leggere’ oggi I masnadieri, Lavia ha scelto un’estetica ‘rock’ evidente già dai costumi che ricordano i films di Tarantino, dalle musiche, dall’interpretazione stessa, asciugata da ogni convenzionalismo accademico e sorretta da un furore intriso di quell’antico Sturm und Drung,accompagnato dalla foga tipica dei giovani di oggi, la cui debolezza si manifesta attraverso sfoghi collerici. Le prove sono divenute delle vere e proprie lezioni di recitazione e per il regista sono state occasione per approfondire non solo l’opera schilleriana, ma anche per dare indicazioni sulla recitazione. 

Lavia è passato ad analizzare il concetto di “arché”, che ha accompagnato tutte le prove, con l’intento di far capire che gli attori sono degli archetipi, ossia figure para – teatrali, che alludono al teatro, e come il dio Dioniso, che si specchiava per vedersi, essi sono gli unici esseri che possono vedere come sono, il teatro è infatti il luogo dell’ “ipseità”, ossia il teatro riconosce sé stesso. Gli attori sono agli antipodi di coloro che escono dai format, che sono “deformati” perché inseriti in un contesto dove la ricerca di verità porta ad un paradosso, quello di allontanarsi quanto più possibile dalla verità, dalla forma, che quindi si deforma. Questo discorso sull’attore è morale ed etico, il regista ci tiene a sottolineare che il suo intento infatti non è soltanto artistico, e ne è conferma proprio la sua procedura in cui a fianco alla volontà di come rendere scenicamente l’opera, si sono affrontati discorsi sull’arte del recitare e su cosa dover ricercare in questo tipo di lavoro. Il teatro è l’arte sintesi di tutte le arti e Lavia ha spiegato che l’arte dell’attore è come quella dello scultore: il marmo è solo un materiale, mentre il marmo di Michelangelo è opera d’arte. Per l’attore vale lo stesso, egli è un individuo ma quando “fa la parte” è artista. L’opera è qualcosa che viene fuori da un materiale pre-esistente, nell’opera d’arte c’è l’energheia, ossia l’aversi nell’opera, possedere il proprio essere attraverso ciò che si è messo in forma di arte. L’attore quando è in scena si mette alla prova attraverso dei tentativi, e ha una sua forma e una sua energia, che danno vita ad un’opera unica nel suo essere fisico e corpo, quindi l’attore non è l’individuo della carta d’identità, ma è individuo che esce da sé stesso per divenire prodotto artistico.  Gli attori sono principalmente corpo, materia, forma ed energia. L’opera d’arte si genera dall’attore che ne costituisce la sua origine, dunque la sua arché, per questo l’attore è un archetipo. Interpretare letteralmente vuol dire “domandare dentro”, Lavia ha spiegato che interrogare il proprio personaggio è la prima mansione che deve compiere l’attore, da quante e quali domande porrà l’attore alla sua parte dipenderà la sua bravura. La domanda dell’interprete segue un percorso circolare, essa ha inizio nella parte e confluisce nell’opera, indagandola a fondo per acquisire elementi utili al proprio personaggio. Il paradosso dell’attore consiste proprio nel fatto che egli è sé stesso solo quando fa l’opera (esso è infatti disperato quando non ha una parte perché non può esprimersi). La sonorità che l’attore deve trovare è contenuta nell’opera, egli deve solo scovarla. L’attore come abbiamo detto è corpo, ma esso è anche voce, questi elementi sono uguali nel lavoro di interpretazione, oggetti da plasmare in funzione della propria parte. Inoltre il pensiero umano nasce proprio dal teatro e ciò lo rende scomodo a tutte quelle istituzioni che attraverso il loro potere vogliono tenere il controllo della popolazione. Tornando a ciò che Lavia ha voluto trasmettere agli attori per mettere in scena quest’opera, è che essi nel fare la loro parte dicono qualcosa che esula dal loro essere, ma che essi ‘pronunciano’ proprio attraverso il loro essere: infatti il regista parla di “allò agoreuei” dal greco “mostrare qualcosa di altro da sé”, infatti l’attore è sempre allegorico, mette in opera ciò che esula dal suo essere. Ma esso è anche simbolico, il regista ricorre al verbo “sun-ballein” che in greco vuol dire “mettere insieme”, infatti l’interprete dopo aver trovato qualcosa di altro da sé deve riunirlo al proprio io e portare sulla scena l’inedita fusione tra la sua identità e quella del personaggio. Egli inoltre è simbolico nel suo essere corpo-voce, questo è fondamento del teatro. Il corpo dell’attore è sovrastruttura del simbolo e dell’allegoria, egli è fondamento del suo stesso corpo che si svela nel luogo del velamento, la skené. Ciò che avviene in scena è un accadere nell’ hic et nunc, dunque Lavia sottolinea che esso può definirsi con la parola latina di accidens, ossia “accidente”, nel senso di qualcosa che accade apparentemente in modo spontaneo, ma che in realtà per dare questo effetto deve essere creato attraverso un lavoro lungo e meticoloso, che egli ha compito, cercando sempre quella “crudezza”, che egli ha spiegato attraverso la metafora della bistecca ancora da cuocere, cruda, per far capire il senso di quel Teatro della crudeltà concepito da Antonin Artaud. Nella mobilità l’attore deve innanzitutto considerare l’upostasis, ossia il luogo dell’abitare della sostanza, che consiste nello stato d’animo dell’attore: egli si trova in uno stato emotivo, dunque lo abita, da qui egli fa sorgere il gesto e crea quella che è la forma artistica della sostanza a cui sta lavorando. Il lavoro delle prove è continuato cercando di portare concretamente sulla scena tutti questi insegnamenti, evocati attraverso i gesti, le tonalità e soprattutto l’essere sul palco con uno stato d’animo costruito come un vero oggetto d’arte. Lavia ha infine ricordato che l’arte dell’attore consiste in un salto, quello che per Platone è il voler possedere ciò che non si ha, questo è l’amore platonico, possedere l’idea di qualcosa che non si ha e che in Eraclito si traduce in maniera ancora più esaustiva con un “tendere a” qualcosa, un luogo metafisico, che è altro dall’essere, ulteriormente riscontrabile in quel Super-io nietzschiano, a cui per l’appunto tende l’io quando vuole elevarsi,  proprio perché il teatro è elevazione.

 Franz e Karl

Quattro praticabili allineati in diagonale, numerose piantane sparse e una vecchia poltrona alla destra del proscenio. Questi sono gli unici elementi che Gabriele Lavia ha previsto.

Le prime figure affrontate nelle prove sono quelle di Massimiliano von Moor, l’anziano e potente padre interpretato da Gianni Giuliano e di suo figlio minore Franz, storpio e affetto da zoppia, che ha invece il volto di Francesco Bonomo. Proprio il vecchio Moor, adagiato stancamente sulla poltrona di scena, intento a leggere con un’aria un po’ assonnata, apre idealmente il sipario. Lentamente, claudicante, appare dalla quinta di sinistra il giovane Franz.

Il suo anziano padre non si accorge di lui, finché la distanza fra i due non si stringe sempre più e Bonomo pronuncia le sue prime battute. La reazione spaventata di Giuliano, dà il via alla caratterizzazione del personaggio dell’infido Franz.

Lavia decide non a caso di farlo entrare di soppiatto, quasi strisciante, per far osservare bene agli spettatori tutte le sue anomalie fisiche. I primi, lenti e studiati gesti di Franz von Moor, sono anticipatori delle sue future macchinazioni.

La vecchia poltrona e i praticabili ordinati compongono lo spoglio arredamento di un’ipotetica sala del nobile castello della casata dei Moor. In futuro, si presteranno, assieme alle molteplici piantane, ad evolversi in selva, locanda, accampamenti. La scenografia essenziale è funzionale al continuo modificarsi e divenire spazio-temporale del testo.

Francesco Bonomo percorre ampiamente il palcoscenico, nella scena che condivide con Gianni Giuliano, opponendo alla rigida staticità del vecchio padre, le ambigue movenze di Franz von Moor. Il secondogenito del conte Moor, raggiunge l’anziano genitore per portargli a suo dire, pessime notizie provenienti dal loro agente di Lipsia. Lo sciagurato soggetto di tali avvenimenti è Karl von Moor, il primogenito, il figlio bello, aitante e coraggioso, colui nel quale sono riposte tutte le speranze future della casata dei Moor.

Il personaggio di Franz, appare dalla prima scena come la vittima di un ingiusto padre, che detesta questo figlio disabile, i suoi handicap, il suo essere inadatto a portare il nome della famiglia. Dalle prime battute quindi, Franz von Moor, deve apparentemente gestire le malefatte che combina suo fratello Karl, girovagando per la Germania.

La grande attenzione e la forte preoccupazione che assalgono il puritano e vecchio Moor si erigono veementemente in contrasto con le dure e spazientite parole che sono riservate a Franz.

In realtà è proprio da questa prima scena, con la finta lettera fatta giungere da Lipsia, che Franz inizia ad orchestrare la sua macchinazione, come un abile regista, nonché attore. Le cure e le accortezze amorevoli, riservate al vecchio padre, il pianto sconfortato in cui si prodiga nel momento in cui, dalla  missiva da lui stesso redatta, apprende le ingenti perdite di denaro e i comportamenti deplorevoli dello sciagurato Karl, sono tutti artifici ben programmati dal piccolo storpio. Il suo inginocchiarsi supplichevole e preoccupato, ai piedi della poltrona dov’è seduto suo padre, continuando a colpire il conte con le cattive notizie, è in realtà la posizione di una serpe, pronta a scattare, a mordere e ad infettare tutto con il suo veleno, l’odio e il livore.

I movimenti di scena, definiti con molta cura da Gabriele Lavia, tendono sempre a richiamare simbolicamente eventi futuri. Sul terminare della loro animata conversazione, Massimiliano von Moor e il giovane Franz, si dividono: il padre si avvia verso i praticabili, mentre Franz cautamente si adagia sulla poltrona, simbolo di potere e di comando, esattamente gli obiettivi verso quali tendono le sue mire.

Proprio sulla vecchia poltrona, Franz resta solo in scena e quasi come in una cinematografica dissolvenza incrociata, condivide per un attimo il palco con suo fratello Karl, determinando un accavallamento spazio-temporale che cattura l’attenzione e la curiosità del pubblico.

 Si crea il gruppo dei masnadieri

In questa seconda scena ci viene presentato per la prima volta il gruppo dei masnadieri. Lavia sottolinea il vigore di questi uomini incitandoli continuamente a tirar fuori tutta la loro virilità, ponendo l’accento attorno alla ricerca della passione. Il livello della comunicazione da trovare è quello della postmodernità, in cui oggi siamo tragicamente immersi, le battute devono essere espresse in modo tagliente e diretto, privo di quell’enfasi ottocentesca artificiosa e convenzionale. Una figura di rilievo del gruppo è rivestita dall’attore Marco Grossi nei panni di Spiegelberg, il secondo antagonista di Karl, dal carattere particolarmente arcigno, subdolo e calcolatore. La delineazione del suo personaggio avviene attraverso la narrazione di un aneddoto legato alla sua infanzia tramite cui comprendiamo tutta la sua frustrazione mista a rabbia dovuta alle angherie subite. Lavia ha indicato all’attore di concretizzare fisicamente la sua battuta mimando il salto nel fosso di cui parla, al fine di rendere le parole vere e proprie immagini da donare al pubblico. Il regista spiega a Grossi, utilizzando le parole di Heiddeger, che Spiegelberg è un individuo gettato nel mondo, che diviene “un essere-in o un essere-con”, questo per far capire che il personaggio nel suo racconto a Karl è “con” lui  e “in”  lui.  Il suo carattere machiavellico si rileva inoltre nella scena in cui tenta in tutti i modi di convincere gli altri componenti del gruppo a formare una nuova banda con lui a capo al posto di Karl, il quale si allontana temporaneamente dal gruppo atterrito dopo la lettura della lettera inviatagli dal fratello nella quale viene disconosciuto dal padre. I masnadieri disorientati dall’eventuale cambiamento iniziano ad assumere posizioni diverse, non riuscendo a credere possibile la sostituzione del loro capobanda Karl von Moor. Quest’ultimo, ben presto, torna in scena, devastato dalla notizia ricevuta, la sua delusione verso il comportamento attuato da suo padre, lo porta a un disgusto verso l’intero genere umano. Le sue parole sintetizzano la ripugnanza nei confronti dell’incongruenza tra cose dette e azioni compiute, tanto da fargli asserire: «Lacrime agli occhi e cuori di pietra». 

Uno dei momenti più suggestivi dell’intera messa in scena è rappresentato dal giuramento dei masnadieri. Il gruppo dei giovani banditi, propone al loro capo di formare una banda di fuorilegge e di rifugiarsi nella selva boema. Karl, furibondo, ritiene ormai di non aver più nulla da perdere: la vita per lui è solamente «una specie di maledetta lotteria». Il nichilismo è imperante. Il conte senza più un nome asseconda il piano, si esalta di fronte la possibilità di scardinarsi da quel mondo tanto odiato fatto di norme e divieti, raccoglie intorno a sé i suoi compagni e afferma con decisione che è giunto «il tempo della violenza e dell’odio”. Il furore e l’impetuosità raccomandate da Lavia in questa scena, sono tese a ricreare l’atmosfera di un romanticismo giunto agli sgoccioli che rende i banditi proiettati verso un solo desiderio, la distruzione dell’ordine precostituito attraverso la brutalità e la ferocia. Questi apostoli fedeli sono uniti in nome della crudeltà e della barbarie al loro dio. Il simbolo cristologico viene impersonato scenicamente da Karl, che inginocchiato e con le braccia tese raffigura visivamente il simbolo della croce, richiamando intorno a sé i masnadieri, come suoi fidati discepoli. Questa suggestiva immagine in cui si suggella il patto di sangue tra i masnadieri, viene resa dal regista attraverso questo paradosso visivo, resa da un ‘Cristo’ che si immola con l’intento di ristabilire una giustizia attraverso il male.

Preparando il finale

Karl decide di far ritorno a casa, il bisogno di rivedere suo padre e la sua amata Amalia è estremo, ma qualcosa, appena arrivato a destinazione, lo blocca. Finge, infatti, di essere un uomo venuto da lontano proprio per paura di rivelarsi, di farsi riconoscere dai propri cari dopo tutti i crimini da lui commessi.

L’incontro con Amalia nel salotto della reggia è suggestivo. Il riferimento alla passione travolgente che unisce i due ‘estranei’, la voglia che entrambi sentono di ricongiungersi, ma allo stesso tempo di separarsi, vengono espressi attraverso i movimenti resi con estrema attenzione ai particolari: un gioco di avvicinamenti, sospiri, ricordi e distacchi.

Karl risulta agli occhi dello spettatore chiaramente confuso, in balia tra due forze opposte, il bene e il male, che non gli lasciano via di uscita. I suoi pensieri, sviluppati e amplificati abilmente nei monologhi con una luce soffusa e con l’utilizzo del microfono, riescono a creare un’atmosfera simile a quella di un’altrove, un uomo che parlando tra sé e sé si rivolge contemporaneamente al mondo intero.

Un personaggio molto ‘psicologico’, difficile da capire nella sua interezza, proprio per i suoi continui sbalzi umorali, un uomo in lotta con il mondo ma prima di tutto con se stesso: ecco chi è Karl.

Questo continuo gioco di cambiamenti è reso evidente in quest’ultima parte dello spettacolo: Karl uccide il padre con un colpo di pistola sparato all’improvviso prima di rivelargli la sua vera identità; in balia dei sensi di colpa instaura un dibattito con il gruppo dei masnadieri che, rendendosi conto della totale perdizione del loro capo, lo esortano a tornare il valoroso Karl di un tempo; infine il sublime momento con Amalia, l’amata di sempre, colei per la quale Karl aveva deciso di tornare a casa.

Amalia riconosce il suo uomo, il suo angelo, il suo demonio, il suo Dio e rendendosi conto di non poter più essere sua, rimanendo accecata dal dolore e dall’orrore degli omicidi che egli aveva commesso, lo supplica di ucciderla.

In scena molteplici figure da orchestrare: il corpo del padre Moor riverso morente a terra tra le piantane nell’angolo sinistro-interno del palco e i masnadieri alle spalle di Karl ad occuparne la parte destra. Al centro della scena resta Amalia, la donna fragile per eccellenza, che prova a suicidarsi puntandosi una pistola al petto senza però riuscire nell’impresa.

Il suo desiderio di morte e il mancato coraggio che non le dà la forza di premere il grilletto, la spinge a chiedere all’amato di porre fine alla sua esistenza.

La tensione è vibrante, Karl fa per prendere la pistola, Amalia si getta verso la sua chitarra posizionandosi di spalle a Karl nell’angolo sinistro-esterno del palco ed ecco che inizia a suonare e a intonare la sua melodia.

Il grido disperato di “Maledetti noi” che si fa musica, che si fa brivido e invocazione di un mondo sbagliato e atroce segna il momento dello sparo, inatteso, improvviso, inspiegabile e scenicamente complesso della morte di Amalia.

È evidente l’importanza della posizione degli attori: il palco risulta tagliato a metà da una linea immaginaria che divide la vita e la morte. Nella parte sinistra, infatti, i corpi di Amalia e Moor giacciono distesi e rimangono perennemente illuminati dalle luci di scena, mentre la parte destra del palco è totalmente occupata dal gruppo dei masnadieri e da Karl. Da notare, il lento movimento che compie Karl per raggiungere il lato sinistro del palco ossia verso la “zona-morte”. Questo passaggio avviene mentre Karl è intento a concludere l’ultimo dei suo monologhi. Forse per la prima volta dopo tanto tempo, il protagonista si rende conto di aver superato ogni limite umano: ha ucciso la sua famiglia nonché altri poveri innocenti.

Questo movimento verso la parte sinistra del palco segna, quindi, la decisione del capo di allontanarsi definitivamente dal gruppo per consegnarsi alla giustizia.

Fin qui l’adattamento di Lavia corrisponde, con poche varianti, a quello di Schiller, ma il colpo di scena nonché la novità inserita rispetto al testo originario è racchiusa proprio nel finale.

Karl, dopo aver espresso chiaramente al gruppo l’intento di abbandonarli per consegnarsi alla giustizia, suscita nel gruppo un’autentica rivalsa. Uno dei masnadieri spara contro Karl accusandolo di “manie di protagonismo” e così dopo il primo colpo si sente all’unisono la raffica di spari che anche gli altri componenti del gruppo infliggono a Karl, un’innovazione che cambia totalmente il finale schilleriano, dove Karl usciva di scena sano e salvo dopo aver terminato il suo monologo e dove quindi non vi era alcuna reazione nel gruppo nei confronti del loro capo. Lavia, invece, vuole che il suo protagonista muoia in scena, crivellato dai colpi dei suoi compagni fidati.

Alla parte sinistra del palco, già intrisa precedentemente di sangue e di morte, va quindi ad aggiungersi il corpo di Karl.

L’intera casata dei Moor viene soppressa e annegata nel sangue mentre l’unica parte di vita che rimane sul palco viene rappresentata da un’umanità corrotta, disumana, ingiusta e totalmente impazzita.

Tramite queste divisioni sceniche Lavia è riuscito a rendere tangibile l’immagine di una vita spietata dove non c’è più una ragione che regge il mondo e che, seppure vi fosse mai stata, gli uomini hanno fatto di tutto per distruggerla.   

Locandina

I MASNADIERI
di Friedrich Schiller
regia Gabriele Lavia

con Francesco Bonomo, Fabio Casali, Daniele Ciglia, Michele Demaria, Filippo De Toro, Davide Gagliardini, Gianni Giuliano, Daniele Gonciaruk, Marco Grossi, Andrea Macaluso, Luca Mannocci, Luca Mascolo, Giulio Pampiglione, Cristina Pasino, Giovanni Prosperi, Alessandro Scaretti, Carlo Sciaccaluga, Simone Toni

scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
musiche Franco Mussida
luci Simone De Angelis

assistente alla regia Giovanna Alessia Guida
assistente alle scene Paola Castriglianò
assistente ai costumi Anna Missaglia

con la collaborazione dell’Accademia di Costume di Moda di Roma
produzione musicale Sandro Mussida
programmazioni aggiunte e arrangiamenti vocali Diego Maggi, Tommaso Ferrarese
preparazione musicale degli attori e vocal coaching CPM Music Institute
fornitura strumenti musicali Master Music S.r.l.
assistente volontaria alla regia Katia Di carlo

Si ringraziano Paolo Colasanti e Leonardo Maltese per la realizzazione dei graffiti
Si ringrazia per la collaborazione gli studenti dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e i ragazzi del Municipio VIII di Roma

Foto di scena

Video

 

 

Friedrich Schiller

18 novembre .11  ore 18 | Teatro India Sala India In

Poeta e saggista classico, ma di grande modernità, che intuì con anticipo il disagio della civiltà, una ‘disperazione’ che attraversa in maniera sconcertante la sua prima opera, I masnadieri.

Partendo dall’edizione che Lavia ha preparato da I masnadieri, il Teatro di Roma organizza una serata per illustrare e riflettere attorno alla figura di Schiller. Spesso glorificato nella formula del poeta della libertà e della nobile e astratta idealità, Schiller si rivela invece sempre più come il tempestoso ma anche elusivo genio di una sconcertante modernità, un aspetto che la lettura di Lavia ha senz’altro posto in rilievo. Nato nel 1759 in una Germania ancora provinciale e frazionata in una miriade di staterelli, e morto nel 1805 dopo aver visto la radicale trasformazione dell’Europa e della sua cultura tramite la Rivoluzione francese e l’ordine napoleonico, egli rappresenta – insieme a Goethe, al quale fu legato da stretta collaborazione e amicizia – l’emblema, fin troppo simbolico, del Classicismo tedesco, l’ultima stagione di cultura universale vissuta dall’Occidente. Schiller accetta in pieno il progresso e la modernità, ma si rende conto che lo sviluppo generale della civiltà infligge pure limitazioni e ferite al singolo individuo, ferite profonde e nascoste che peraltro solo l’educazione e il progresso possono curare, soprattutto grazie all’arte: l’arte diviene la maestra dell’umanità perché l’arte, gioco molto serio come quello dei bambini, libera dalla servile soggezione al peso della realtà e insegna quella creatività che è anzitutto libera costruzione della propria persona.

Saranno chiamati a toccare questi temi, oltre a Gabriele Lavia, Mara Fazio, Professore Associato di Discipline dello spettacolo all’Università La Sapienza di Roma, il professor Mauro Ponzi, Ordinario di lingua e letteratura tedesca all’Università La Sapienza di Roma, Franco Ricordi, regista teatrale  e saggista.

ingresso libero