17/05/2024

L’angelo di Kobane di Simone Toni. Dialogando con Anna Della Rosa splendida interprete

L’angelo di Kobane di Simone Toni. Dialogando con Anna Della Rosa splendida interprete

di Gianfranco Falcone

L’angelo di Kobane di Simone Toni. Dialogando con Anna Della Rosa splendida interprete

Una sorta di sesto senso mi diceva che dovevo assolutamente vederlo. Non sono stato tradito nelle mie aspettative. L’angelo di Kobane è da vedere e ascoltare, da far entrare nella pelle fino a sentirsene scorticati.
In scena Anna Della Rosa, presenza esile ma nello stesso tempo potente, piena di energia. È sola in scena con il suo viso semita, affilato, in alcune espressioni sembra avere tratti da divinità mediorientale. Teli di plastica sulla parete e sul pavimento proteggono dagli schizzi di vernice rossa che, a imitazione del sangue, imbratteranno le superfici. Sì, perché quella che racconta Anna Della Rosa è una storia di sangue, ma anche di redenzione. Nonostante la violenza che percorre tutta la pièce, quella dell’Angelo di Kobane è una storia d’amore. Amore per la propria terra, amore paterno e filiale, amore per la libertà.

Ho dovuto trattenere lacrime e singhiozzi durante tutto lo spettacolo per rimanere concentrato su ciò che avveniva. Ciò che avveniva era una splendida attrice che raccontava la resistenza curda a Kobane e nei villaggi limitrofi al confine tra Turchia e Siria, che raccontava dei battaglioni femminili, le Unità di protezione delle Donne chiamate YPJ, in lotta contro Daesh. Lo faceva attraverso una recitazione sincopata, accelerata, che cambiava repentinamente registro e faceva sembrare Anna di volta in volta la bambina dodicenne, la donna che va alla ricerca del padre, il cecchino infallibile e spietato, lei che voleva solo fare l’avvocato, che non voleva fare il contadino, che non capiva che quegli alberi da frutto erano l’eredità del padre e dei suoi antenati.

LAngelo-di-Kobane-4-Anna-Della-Rosa-Ph.-Lanna.jpgLa recitazione di Anna Della Rosa entra sotto pelle, non puoi sottrarti, ti costringe, ti cattura. Ti porta con lei in Kurdistan, tra alberi di pistacchio e da frutto. Sul palco pochi elementi, è una scenografia essenziale quella che vedo, quasi assente. C’è un ceppo, un’accetta minuscola, una borsa da cui Anna trarrà fuori dei foulard, a sottolineare alcune sequenze del dramma. C’è un bidoncino pieno di vernice a simulare il sangue, il sangue delle stragi, il sangue delle mestruazioni che costituiranno l’ultima barriera contro lo stupro. Perché il combattente di Daesh che l’ha comprata non può avere contatti sessuali e stuprare una donna mestruata.
Rehana la bambina che voleva diventare avvocato tradirà il più importante comandamento delle Unità di protezione delle Donne, conservare l’ultima pallottola per se stesse. Rivolgerà il fucile contro lo stupratore di Daesh, il soldato del califfato che stupra le donne, che stupra un popolo, che stupra la libertà. Sparerà contro il nemico facendo esplodere un’eiaculazione di sangue. E prima di essere decapitata Rehana griderà il suo urlo di libertà. Quel sangue non sarà una resa, una sconfitta. Andrà a irrorare la terra degli antenati, la terra luogo in cui riposano le radici della propria gente, le proprie radici.

Gli oggetti sulla scena sono pochissimi servono a dare movimento alla recitazione. Ed è raro vedere un’attrice reggere così prepotentemente la scena da sola, senza cadute di tono, avvolgendo il pubblico in una trama di allusioni, suggestioni, evocazioni incalzanti, che non danno tregua. Gli asolo sono una grande sfida ma in questo caso è una scommessa che l’attrice ha vinto sotto tutti gli aspetti.
È un piacere vedere Anna Della Rosa alle prese con questo testo dalla scrittura robusta, stratificato, che sicuramente aiuta la recitazione con la sua poesia e la schiettezza che porta, riuscendo ad essere sia racconto di formazione ma anche racconto che inquadra la realtà storica di terre martoriate, e ora dimenticate, dopo che si sono sacrificate per porre un argine al terrore del califfato.

L’Angelo di Kobane è uno di quegli splendidi casi in cui scrittura, regia, recitazione, si rinforzano a vicenda, creando un’elegia potente che rilancia in continuazione il gioco teatrale.
La maturità artistica di Anna Della Rosa, la complessità degli strumenti attoriali a sua disposizione, sono stati confermati dalla sua voce vibrante e sincera che canta in curdo canti di libertà, canti di disperazione, canti d’amore. Perché quello rappresentato al teatro dell’Elfo, al di là del sangue e della violenza da cui è pervaso il testo, è un canto d’amore. È vero, come dice il padre di Rehana che il paradosso dell’orrore è che bisogna essere più sanguinari dell’orrore stesso per poterne avere ragione. Questo è il destino di Rehana ma è anche il destino di un popolo, di qualsiasi popolo, che reclama la propria libertà.

LAngelo-di-Kobane-2-Anna-Della-Rosa-Ph.-Lanna.jpgA sipario chiuso con Anna della Rosa

Quando ti è stato presentato per la prima volta il copione de L’angelo di Kobane che cos’hai pensato? Non ti ha fatto paura un testo così impegnativo? O ogni testo è impegnativo in modi diversi?

Mi ha fatto paura per il tema che trattava, e questo mi è capitato solo un’altra volta. Mi ha spaventato essendo una storia vera, non perché questa ragazza si chiamava Rehana e il suo papà faceva il contadino, ma perché è ispirato alle tantissime ragazze curdo siriane o curde che vivono in Siria, che si sono arruolate e sono andate a combattere, e hanno perso la vita per difendere la loro terra vincendo anche. Perché sappiamo che la loro resistenza eroica contro Daesh, nel famoso assedio di Kobane del 2014, fu una resistenza che diede esito positivo, liberando la Siria e fermando un’avanzata terrificante che fino a allora nessuno era riuscito a fermare.
Da una parte mi dava il senso di una forte responsabilità il fatto di essere un’occidentale, che vive in una terra libera, che hai tutti i tuoi cari, che non hai mai visto una bomba, che non hai mai vissuto o visto niente di tutte le cose atroci che nella realtà queste persone hanno vissuto, e che tantissime ragazze e ragazzi, uomini, donne stanno vivendo ora, nel momento in cui io e te parliamo, e tutte le sere in cui io vado in scena. D’altra parte sapere che era qualcosa di così vero rendeva necessaria una cura in di più. Non puoi drammatizzare, non puoi essere ridondante o patetico, o crogiolarti nelle lacrime che susciti nel dire, perché troppo vere. Credo che meriti un rispetto, un’etica ancora più alta quando racconti storie così. Poi ovviamente io cerco sempre di non indulgere in una lacrima o in un patetismo quando faccio un testo. Cerco di non farlo mai. Ma trattando temi così di stringente realtà e attualità mi sembra ancora più importante. E poi, appunto, che ne so io nel mio agio occidentale? Come faccio a restituire tutto ciò? In questo è stato molto bravo anche Simone Toni, il regista. Perché anche per lui era importante fare questa cosa andando fino in fondo, ma anche ben consapevoli di una distanza che c’è tra il nostro agio e queste vite così coraggiose, eroiche, estreme. Per cui in qualche modo era necessario raccontarle con una qualche forma di delicatezza. Perché so bene che sono tramite di una storia molto grande, molto più grande di tutti noi che siamo seduti lì in platea.

Una delle difficoltà è la verità di questa storia, dell’essere veri. L’altra difficoltà mi sembra più artistica, nel senso che tu durante la recitazione passi in modo molto repentino, quasi sincopato, su diversi registri e su diverse emozioni. Quanto ti ha messo alla prova questa repentinità? O hai fatto semplicemente riferimento al tuo bagaglio attoriale?

Mi ha messo alla prova. È stato tra l’altro il primo monologo che ho fatto nella mia storia teatrale.

Gli asolo possono spezzare le ossa a chiunque. Tu invece hai retto benissimo.

Non lo so, ma ti ringrazio. Io l’ho fatto… Adesso guardo sul copione. La data che ho scritto la prima volta era quella dell’estate del 2018. Sì, è stato sicuramente difficile e mi ha aiutato Simone. Siamo coetanei quindi c’è stata anche una bella interazione. Mi aiutò il fidanzato di una mia amica, che è curdo siriano. E mi insegnò per casualità le canzoni che canto. Da copione sono tradotte in italiano ma non è prescritto che l’attrice canti. Però io ho pensato e ho proposto al regista «Mi piacerebbe cantarle. C’è questo ragazzo che mi può insegnare». E così è stato. È stata una un’impresa, una sfida, una novità. Affrontata con lo studio, perché poi appunto c’è tanto studio del testo stesso. Poi ho letto un diario, ho letto alcuni reportage di giornalisti che erano stati in Siria durante quegli anni, ho visto sia al cinema che online un po’ di documentari o di film, anche per entrare in qualche modo in un immaginario, per approfondirlo. Per cui questa repentinità che tu vedi è frutto di un bel lavorone e di un bello studio e anche del tempo. Perché prima di approdare alla velocità il monologo durava un po’ di più. Poi piano piano, praticandolo, quando quel percorso lo conosci di più, allora puoi attraversarlo con più agilità.

Questa agilità si sente. Non hai avuto mai momenti di incertezza e riesci a restituire una schiettezza, una verità. Tra l’altro, ritrovare la tua voce cantata è stata una piacevolissima sorpresa. Quanto ti appartiene il canto? È uno strumento che ti è familiare o l’hai scoperto in questo contesto specifico?

Mi appartiene. Ho studiato canto in una scuola quando facevo la Paolo Grassi. E poi negli ultimi anni, durante il Covid, ho iniziato a prendere lezioni da Francesca Della Monica, artista che va in scena in prima persona ed è anche una pedagoga e una insegnante di canto. È stato un bel approfondimento. Nello spettacolo canto due piccoli brani, però penso che aprano uno spaccato.

I pochi oggetti in scena ti aiutano a spezzare il ritmo quando è necessario, a dare dinamicità al testo, alla recitazione. Quanto e come avete collaborato per trovare questi espedienti? A questo proposito ti faccio una domanda che mi hai sollecitato ieri nel vederti recitare. Quanto un’attrice è semplicemente strumento della scrittura o della regia? E quanto invece ha spazi di autonomia e di libertà nella recitazione?

Che belle domande che ti fai e che mi giri. Te ne sono grata. Beh, io ho la fortuna di lavorare con registi che adoro e stimo moltissimo, che danno non solo a me, ma agli attori con cui lavorano, fiducia e libertà, Walter Malosti, Pascal Rambert e in questo caso Simone Toni. Per i quali è importante la personalità e la capacità creativa di un attore, per cui sicuramente c’è stata una collaborazione assoluta tra me e Simone. L’idea del tronco era sua senz’altro. Però poi come lavorarci è stato davvero frutto di un percorso a vista, di una navigazione a vista che facevamo insieme. E questo per un monologo è sempre importante. Gli attori, come tutti gli esseri umani se si sentono compresi e amati, se si sentono compresi artisticamente e ricevono la fiducia del loro interlocutore, lavorano meglio, si aprono meglio, stanno meglio. Non credo affatto nelle relazioni coercitive, in nessun ambito e ora meno che mai. Quindi c’è tanto di me, anche nelle proposte. Ti ho fatto l’esempio della canzone. Simone mi ha detto «Mi sembra un’ottima idea». Così come è stata mia l’idea di iniziare quasi come fosse in un buio, quasi come fosse un sogno di lei.
Ti racconto un aneddoto che a me piace un sacco. Il tronco che uso in scena è stato il destino che me l’ha fatto incontrare. Mi trovavo in viale Papiniano, a Milano, ad un supermercato, con la mia macchina piena di spesa e vedo questo viale pieno di tronchi tagliati. E tra me e me penso “Cazzo, che culo! Io e Simone abbiamo bisogno esattamente di questo”. Mi sono fermata. Ne ho valutati due o tre. Chiamo Simone. «Senti che faccio? Lo prendo?». «Certo, prendilo». Ho fermato un signore che passava per strada. Gli ho detto «Mi scusi, mi dà una mano?». Perché io da sola non riuscivo minimamente a caricarlo nel mio baule. Ed ecco il tronco. Infatti adesso comincia a essere un po’ smangiato, a furia di dargli colpi d’accetta.

Tra l’altro contribuisce molto a dare matericità alla recitazione che non rimane semplicemente astratta ma è anche molto fisica.

Hai ragione e questo è assolutamente un’idea di Simone, anche perché non è facile come dire variare un racconto dove sei da sola. Cambiano tante situazioni. E lui ha trovato il modo di avere pochi elementi anche per una praticità di allestimento, per poterlo fare agevolmente in tanti contesti, ma che aiutassero, come dici tu, a passare da uno stato d’animo all’altro, da una situazione all’altra.

Altrimenti correvi il rischio che il monologo diventasse solo un evento letterario. Invece quello che voi avete portato in scena è un atto teatrale, pur essendo tu da sola sul palco. Tu hai parlato di una distanza. Né io né te abbiamo vissuto direttamente sulla nostra pelle ciò che è accaduto a Kobane. Però possiamo metterci in una posizione di ascolto. Che cosa ti ha aiutato ad ascoltare e che cosa hai ritrovato di tuo? Ci sono delle cifre, degli elementi, che sono tuoi, che in qualche modo hai ritrovato della tua esperienza personale di donna occidentale?

Come ti dicevo mi ha aiutato leggere e vedere dei film o documentari. In parte ti posso rispondere e in parte no perché c’è qualcosa che fa parte di quel segreto attivare che io credo ogni attore abbia e che è bene rimanga segreto quasi anche all’attore stesso, perché resti puro e non si secchi, non diventi formale. Però sicuramente tutta la ragazzina dell’inizio è una ragazzina piena di vita, spiritosa, avventurosa, piena di voglia di vivere, che ama il suo arrampicarsi. Quindi c’è tutta una brama di vita.

E tu in passato sei stata un po’ quella ragazzina da giovane?

Sì, ero una ragazzina sveglia. Oppure quando lei alla fine torna nel suo luogo del cuore. Ovviamente non è che io sia mai tornata in un luogo del cuore devastato. Però in qualche modo mi ha aiutato ricordare qual è il luogo dell’infanzia, che per me è un paradiso.
Per me è molto utile in ogni testo partire da quello che c’è, che è in qualche modo in comune o perché l’ho vissuto o perché l’ho immaginato, perché l’ho letto, perché l’ho visto qualcuno vicino a me, ma qualcosa che appartenga al mio orizzonte interiore. E poi vai all’esplorazione di quello che non è il tuo orizzonte interiore, ma nel quale ti puoi appunto immedesimare e mettere nei panni dell’altro. Che poi letteralmente è quello che fanno gli attori.
Anche perché questa ragazzina noi la vediamo vicina a noi. Vuole studiare, ha un conflitto adolescenziale come tutti i giovani con il padre, ascolta la musica occidentale, guarda la televisione. Perché poi è così. Sono sempre mondi nei quali scopri quanto c’è di lontano, ma anche e soprattutto quanto c’è di vicino a te. In fondo c’è anche un tema generale, al di là del fatto che quegli episodi dell’assedio di Kobane del ‘14 siano finiti, ci sono elementi come esseri umani. Io credo che ci sia una radice di umanità che è comune a tutti gli esseri umani al di là di modi di vivere diversi o delle lingue diverse.

Ancora un paio di domande e ti lascio ai tuoi impegni.

Il mio impegno è che vado semplicemente a teatro a prepararmi.

Qual è il tuo sogno nel cassetto artisticamente parlando? Con quale testo o con chi ti piacerebbe confrontarti tra registi e attori?

Lavorare? Sono felicissima e ringrazio veramente il cielo e gli artisti con cui lavoro, per cui spero di continuare con queste persone. Ma il sogno dei sogni è lavorare con una regista di cinema francese che si chiama Céline Sciamma, regista per esempio del Ritratto della giovane in fiamme e di Petite Maman, che io adoro, e che sarebbe fantastico incontrare.

Quindi una regia al femminile e femminista mi sembra di capire dai film che hai citato.

Profondamente femminile, profondamente femminile e cinematografica. Non direi femminista, direi profondamente femminile.

Hai parlato di una stanza segreta, di un luogo segreto a cui l’artista attingano, a cui fa appello quando è in scena. Non credi che gli artisti in generale quando sono all’opera attingono a una memoria filogenetica che neanche loro conoscono, che emerge nel momento del loro lavoro?

Sì, per me sì, sicuramente sì.

Quindi c’è un’energia che si sprigiona in scena e fa vivere l’artista e il pubblico?

Sì, io penso proprio di sì, un’energia che ignoriamo. E più di tanto non è il caso di andare a illuminare. E forse in parte la tieni protetta dalla razionalizzazione.

Stai esprimendo una dimensione molto femminile. Forse l’uomo, nella sua smania di penetrazione vuole razionalizzare. Una donna come sei tu, una splendida donna, riesce invece a porsi in termini semplicemente di ascolto, di accudire queste parti senza volerle scoprire, possedere a tutti i costi. Mi sembra una dimensione femminile. Forse è una mia suggestione, però mi hai suggerito questo.

Bè mi piace, ti ringrazio.

Gianfranco Falcone

Teatro Elfo Puccini – Milano
14 – 19 maggio sala Bausch
L’angelo di Kobane
di Henry Naylor, traduzione Carlo Sciaccaluga
regia Simone Toni
con Anna Della Rosa

creazione visiva Christian Zurita
produzione TPE – Teatro Piemonte Europa produzione originale 2018 Teatro Nazionale di Genova.

Fotografie Lanna