DRAMMATURGIA
di Claudia Cannella
(7 maggio 2005)
È strano come un testo così bello e agghiacciante per la sua attualità sia rimasto sconosciuto alle scene italiane fino ad oggi. Eppure era stato pubblicato (e recentemente ristampato) da Ubulibri, eppure il suo autore, Arthur Schnitzler, ha sempre abitato i nostri cartelloni. È vero che ci sono 23 attori a foglio paga (e di questi tempi è un lusso economico difficilmente sostenibile), ma non è certo questo il motivo di un così lungo oblio, né forse è adesso importante darsene una ragione. Mentre è importante che Luca Ronconi e il Piccolo Teatro abbiano dato, con questa scelta, un segno forte di quella che dovrebbe essere sempre la funzione di uno Stabile: fare un teatro d’arte per tutti, senza perdere di vista nei contenuti l’impegno civile. Il professor Bernhardi del titolo è il direttore di una clinica privata nella Vienna di inizio ‘900. La sua rovina inizia quando, per una forma di laica pietas e non certo perché è ebreo, impedisce a un sacerdote di dare l’estrema unzione a una giovane donna, moribonda a causa di un aborto clandestino, per non turbarne gli ultimi istanti di vita che ella sta vivendo in uno stato di euforica quanto vana speranza di guarigione.
Bernhardi (sublime De Francovich nel mescolare autorevolezza e fragilità) è un uomo di potere, un cattedratico amato e odiato, dominato da un ossessivo e quasi ottuso senso di giustizia, ma è anche ebreo, come del resto una buona metà dei medici (e non solo) attivi a Vienna in quel periodo. E a questo, che nel caso specifico è un pretesto ma più in generale è il sintomo dell’imminente esplosione dell’antisemitismo hitleriano, si attaccano tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, lo vogliono fare fuori: colleghi e politici, di cui l’ambigua sintesi è l’ex medico diventato ministro, avido ambiguo e istrionico quanto il suo interprete, un bravissimo anche se strabordante Massimo Popolizio. Lotte di potere all’interno dell’accademia, alleanze e tradimenti, opportunismi e vigliaccheria fanno di Bernhardi prima un colpevole e poi un eroe. Viene sospeso dal suo lavoro, processato, incarcerato e infine riabilitato e portato in trionfo, cosa che egli affronta quasi con pudica vergogna. Ma siamo veramente a Vienna? Purtroppo da allora nulla è cambiato. Sconcerta e ci colpisce al cuore l’attualità di questa splendida commedia politica, datata 1912, di solido impianto naturalistico e destinata ad attori di grande caratura.
E Ronconi li sfodera tutti i suoi migliori cavalli di razza, in una bella tavolozza generazionale, in cui i più “anziani” primeggiano (Giovanni Crippa, Massimo De Rossi, Riccardo Bini e Virgilio Zernitz, i migliori) e i più giovani ancora “ronconeggiano”. Tutti uomini (eccetto l’infermiera Erika Urban), quasi tutti medici, in elegantissimi costumi da Vienna fin de siècle, si affrontano in avvincenti duelli etici sulla scena essenziale di Margherita Palli, tagliata longitudinalmente come un cinemascope e segnata per ogni atto da uno sfondo monocromo e da arredi filologicamente impeccabili. Ma qualcosa non ha funzionato. Dopo i trionfalismi della “prima”, il pubblico è andato in calando e, molto probabilmente, lo spettacolo non sarà ripreso il prossimo anno. Ed è un peccato, anche se bisogna ammettere che il testo, per quanto bellissimo alla lettura, non regge quattro ore e mezzo di spettacolo e necessiterebbe di un’operazione di “asciugatura” in alcune sue parti francamente prolisse, per non dire dannose alla sua efficacia scenica. E poi perché rifiutarne l’impianto naturalistico, ricco di spunti da pièce di conversazione, frantumandone i ritmi interni con una recitazione a tratti inutilmente straniata e dilatata?
Da “Hystrio”, a. XVIII, 2005, n. 2 (aprile-giugno)