teatroecritica
di Viviana Raciti
(22 agosto 2020)
Recensione. Al Teatro Antico di Taormina torna Gabriele Lavia presentando, in data unica, il debutto di un nuovo adattamento della Medea per due soli attori. A Roma in scena al Teatro Vascello
In prima nazionale al Teatro Antico di Taormina, Gabriele Lavia ha portato in scena una Medea essenziale, riuscendo a condensare le questioni che stanno sul crinale tra l’amore folle e l’odio ragionato, tra motivazioni personali e manovre politiche. Dopo aver già frequentato la tragedia euripidea, Lavia approda a una riscrittura (adattata da lui stesso) per due soli attori, all’interno della quale vengono tuttavia recuperate battute e funzioni attribuite anche ad altri personaggi. Una «fedeltà alla parola» classica (cui corrisponde una «infedeltà drammaturgica», così definite nelle note di regia) che però non sente la distanza dal linguaggio contemporaneo, anzi, proprio questa dimensione sembra esaltare, attraverso le parole di Medea e Giasone, sensibilità attuali.
Qualcuno potrebbe obiettare che questo sarebbe il senso di ogni classico, in perenne dialogo con i propri fruitori, quale che sia l’epoca di ciascuno; eppure, quante volte è capitato di sentire il peso di quella distanza temporale, parole granitiche e azioni cristallizzate in una dimensione troppo lontana perché possa sul serio attraversare la nostra esperienza? Quante volte, ancora, è capitato che, per sopperire a tale allure, si optasse al contrario per una depauperazione dei personaggi, dei rispettivi portati tragici, pensando che per “attualizzare” si dovesse necessariamente impoverire?
In questo caso, nonostante la semplificazione fattiva, i nuclei drammaturgici indispensabili come si è detto rimangono intatti e il contesto scenico non è forzosamente “contemporaneo” ma si libera di quella corsa all’ammodernamento di facciata e predilige un ambiente privo di quasi tutto, con l’eccezione di un letto, un tappeto di sabbia (in comune con l’altro spettacolo presentato il giorno successivo e interpretato da Lavia, il suo storico Sogno di un uomo ridicolo) e pochi altri elementi d’arredo, la cui dominante cromatica è il rosso. Sotto il profilo interpretativo è vero che alcune scelte appaiono ancora da limare: proprio nella volontà di far aderire al presente le emozioni contrastanti della regina della Colchide, ora sposa tradita, e quelle di Giasone, temerario avventuriero sempre alla ricerca di mezzi esclusivamente per la propria rinnovata gloria, Federica Di Martino e Simone Toni rischiano di eccedere nella stilizzazione dei tratti caratteriali, estremizzati, annichilenti quasi tutto il resto.
Ecco una Medea allora perennemente depressa nei toni, nella fisicità ripiegata sempre su se stessa, tra le lenzuola del letto che sovrasta la scena o nella camminata strascicata che la fa deambulare, lasciando traccia sbilenca del peso nella sabbia. Quell’urlo disperato delle battute iniziali qui si ritrova nello svuotamento atroce che aleggia nell’esistenza di questa donna. Eppure, tale stato dell’essere non sembra mutare decisamente come suggerirebbe Euripide; il cambio che spezza la moglie-madre e fa risorgere la maga nelle sue crude intenzioni qui appare come offuscato da quell’atteggiamento schiacciante. Tutto viene sempre mediato: la macchinazione, la rabbia, la disperazione, la conquista, tutto sottomesso a quella battuta che pure viene pronunciata in scena, per cui «l’amore è la peggiore disgrazia per le donne».
Giasone è reso in maniera ancora più monocroma. A tutti gli effetti quella rappresentata è la tragedia di Medea, mentre lui è soltanto l’uomo che l’ha tradita, superficiale, opportunista, addirittura grottesco nel suo reclamare la ragione per le proprie scelte. C’è da dire che, nonostante alcune qualità ancora da sgrossare, è pur vero che non si fa fatica a ritrovare negli atteggiamenti dei due personaggi figure del quotidiano, mariti approfittatori e donne succubi, vittime-carnefici entrambi in una spirale che ruota attorno a logiche amorose perverse. E tuttavia, la tragedia di Euripide non è soltanto questo: ci sono le questioni annose legate alla cittadinanza e conseguentemente ai diritti degli stranieri e, in aggiunta a questi, anche i diritti della donna, in questa versione appena accennati o lasciati cadere. Effetto probabilmente naturale, dal momento che è stata asciugata la funzione sociale e di commento fornite dal coro. Tra le scene in cui il riadattamento offre una sfumatura più interessante, citiamo ad esempio quella relativa al monologo del messaggero, al quale è affidato il compito di narrare la morte atroce della giovane Glauce e di Creonte: a parlare in questo caso è Giasone in una prospettiva non più straniata ma anzi partecipe e sconvolta; tutto diventa ancora più personale; così come l’uccisione dei figli, «perché li hai uccisi se li amavi?» «Per farti soffrire» è il culmine della vendetta della moglie-madre sull’uomo, ma, in questa versione l’atto vibra non tanto della forza sovra-umana della maga, quanto dell’odio accecato della donna.
A latere della resa, e dunque anche al di là delle sue debolezze, un pregio emerso in questa occasione è però la strenua volontà a fare teatro: nonostante le restrizioni, nonostante la pioggia incessante che ha colpito le antiche pietre, nonostante un atteggiamento poco conciliante da parte di certo pubblico che, di fronte alla concreta possibilità di perdere un’occasione di cultura, si sarebbe preoccupato soltanto della eventuale perdita di un biglietto pagante. L’attesa e l’incertezza sembrano essere state quelle di un compratore insofferente, dimentico di quanto abbiamo atteso, di quanto abbiamo dovuto mediare. La Fondazione Taormina Arte Sicilia beneficerebbe sicuramente di un lavoro più intenso di relazione con pubblico, che a Taormina potrebbe andare non soltanto per il prestigio del teatro o del nome noto, ma perché effettivamente sa cosa sta guardando, in quale contesto, recuperando quella lunga tradizione ora considerata parte dell’intrattenimento.
Viviana Raciti
visto al Teatro Antico di Taormina – agosto 2020
MEDEA
di Euripide
regia di Gabriele Lavia
con Federica Di Martino e Simone Toni
Coproduzione Fondazione Taormina Arte Sicilia e Effimera S.r.l.
Foto di Ivana Scimone
Articolo originale